L’iniziazione martinista nell’era contemporanea – Iperion S:::I:::I:::
In princípio erat Verbum,
et Verbum erat apud Deum,
et Deus erat Verbum.
Hoc erat in princípio apud Deum.
Ómnia per ipsum facta sunt:
et sine ipso factum est nihil, quod factum est:
in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum:
et lux in ténebris lucet,
et ténebræ eam non comprehendérunt.
(Giovanni, Vangelo 1:1-5)
Perché iniziare questo incontro, dedicato all’attualità dell’iniziazione martinista, con il Prologo o, altrimenti detto, Inno al Logos di Giovanni?
Per affrontare l’argomento congressuale, ho voluto prima chiarire a me stesso cosa intendere per iniziazione.
Innanzitutto, ho pensato che il termine iniziazione faccia pensare a un inizio, a un cominciare, a un principio.
E cosa ci dice Giovanni? Che al principio c’era il Verbo, o meglio, il Verbum. Soffermiamoci: il termine Verbum è tradotto, il più delle volte, come Parola.
Quindi, se dobbiamo pensare all’iniziazione come un principio e, al principio era il Verbum, cioè la Parola, allora per sillogismo categorico, in qualche modo, l’iniziazione deve avere a che fare con la Parola.
Per affrontare l’argomento congressuale, ho voluto prima chiarire a me stesso cosa intendere per iniziazione. Innanzitutto, ho pensato che il termine iniziazione faccia pensare a un inizio, a un cominciare, a un principio.
Mi è allora, subito balzato alla mente, come ricordo recente, il Prologo di Giovanni, in cui si fa riferimento, per l’appunto, al Principio.
È anche vero che i termini iniziazione e Parola vanno contestualizzati, non in un ambiente spazio-temporale finito, o quaternario, ma vanno invece riferiti in un ambito tradizionale dove non c’è spazio e non c’è tempo, dove invece vi è l’esistenza, non necessariamente legata alla presenza dell’uomo, ma dove vi è qualcosa che va al di là e quello che i suoi sensi sono in grado di cogliere. Come si dice, se il cieco non è nelle condizioni di vedere la luce emanata dal Sole, non significa che la luce e il Sole non esistano. A tal riguardo, eviterei di entrare nelle disquisizioni fra immanenza e trascendenza, disquisizioni che lascio agli amanti dei verba, ma non del Verbum.
Non a caso anche altre strutture iniziatiche, riconoscendo questa vicinanza semantica fra Verbum e iniziazione, spingono la loro opera alla ricerca della Parola perduta.
In realtà, sia il Verbum che l’iniziazione riportano ad un concetto comune che è quello di atto creativo, di atto trasmutatorio, o, ancora meglio, di palingenesi, vale a dire di ri-nascita, di una nuova vita dunque o Vita Nova.
Con l’iniziazione, infatti, si apre per l’uomo la possibilità di fare ingresso in un “mondo altro”, ma allo stesso tempo in sé stesso, per risvegliare il “principio divino” presente in ciascuno di noi. Si tratta di ciò che veniva definito il Fuoco al centro della Terra, rappresentato anatomicamente nell’uomo dal cuore, considerato come centro dell’intelligenza spirituale, da cui deriva il termine ricordare, da re-cordari, cor, cordis, cioè cuore che col prefisso re, significa portare al cuore.
Non è un caso che molti segni nei diversi gradi martinisti, e in altre strutture iniziatiche, fanno riferimento al cuore – quale simbolo del centro della memoria spirituale umana da risvegliare – altrimenti detto flos ignis, il fiore di fuoco, rappresentato in alcune immagini mistiche come una fiamma che si sprigiona dal cuore.
Quindi, se con l’iniziazione dobbiamo ricordare, se dobbiamo pervenire allo stato iniziale dell’uomo prima della caduta, allora dobbiamo ritrovare per analogia, il Verbum, la Parola che solo apparentemente è andata perduta o confusa nel frastuono della verbosità.
Sempre analogicamente, si può fare riferimento alla Fenice, l’Uccello di Fuoco della teologia di Heliopolis, o al Quetzalcóat, il Serpente piumato della teologia tolteca. Entrambi indicano un inizio, il principio primordiale di vita che riscoperto in sé, conduce all’immortalità.
Su questo tema, e in particolare su come gli antichi egizi hanno rappresentato il percorso a ritroso dell’uomo verso la sua origine divina, è opportuno fare riferimento al Libro dei morti egizio chiamato anche Libro per uscire al giorno.
Occorre rammentare che l’iniziazione è strettamente collegata ad un ricordo, e il ricordo è una riconquista della memoria, un riportare in luce quanto è stato ottenebrato, obnubilato dallo stato esistenziale nel piano della manifestazione sensibile o “al di qua”. Pertanto, l’iniziazione deve necessariamente condurre, in quanto memoria, ad una presa di conoscenza di una condizione “altra”, o ancora meglio, “ultra”, una condizione che ci è nota, ma è stata dimenticata conseguentemente al distacco dalla divinità, alla caduta nel piano fenomenico della materialità o quaternario. Lo stesso può dirsi della perdita della Parola, nel rumore prodotto dalla materialità del discorso puramente dialettico. Invece, la Parola deve essere intesa essenzialmente nel suo significato profondo, come veicolo simbolico di una esperienza interiore.
In quanto appena detto, ci soccorre il divin poeta, allorché, nel primo canto del Paradiso, al settantesimo verso, ci ammonisce: Trasumanar significar per verba non si poria, vale a dire che non si può andare al di là dell’umano se si utilizzano le parole. Ci si riferisce qui ad una conoscenza non accademica, non parolaia, non libresca, non limitata alla razionalità, per quanto dotta essa possa essere.
La conoscenza a cui tende l’iniziazione è completamente opposta alla conoscenza razionale, alla gnosis greca (γνῶσις), che vede il conoscente, colui che conosce, e il conosciuto, l’oggetto della conoscenza, su versanti contrapposti, rimarcando, di fatto, una dualità fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Consegue un processo gnostico, o di conoscenza, essenzialmente duale, un continuo procedere fra due opposti. Al contrario, e non può essere altrimenti, la conoscenza iniziatica è un andare oltre ogni dimensione dialettica. Nella conoscenza iniziatica vi è identificazione fra conoscente e conosciuto ed è quindi un’esperienza essenzialmente unitaria ed unitiva.
Un basilare assioma ermetico così recita: per conoscere cosa sia la tal cosa, bisogna diventare la cosa stessa, come dire che possiamo leggere tutti i libri di giardinaggio e guardare tutti i video possibili, ma finché non si prendono le sementi e le pianticelle e non le si pongono a dimora al calore della terra nel giusto periodo, non si diventa giardiniere.
Una cosa non la si conosce realmente finché non la si realizza. Vale a dire finché la coscienza non possa trasformarvisi.
Questo ci pone dinanzi una evidente verità: la conoscenza fine a sé stessa è essenzialmente concettuale e accademica, è kultur, mentre la conoscenza iniziatica è sostanzialmente un vissuto, un fare, ancora meglio è Opera.
È questo il motivo per cui, in ambito iniziatico e tradizionale non vi è, e non vi può essere, un insegnamento di tipo cattedratico con sedicenti messia e abboccanti discenti. Non possono esserci conferenzieri che propongono falso misticismo e confusioni spiritualistiche, tipiche della new age, abbonamenti a prolifiche monografie periodiche sul sovrannaturale, corsi a dispense di dottrine esotiche di ogni tipo a costi proibitivi. Ma questo dispersivo e fuorviante panorama che si offre a chi si avvicina alla ricerca esoterica non ha nulla di tradizionale e tantomeno di iniziatico.
Ho detto pocanzi che la conoscenza iniziatica è Opera; allora, se il fine del Martinismo è la reintegrazione dell’uomo nelle sue condizioni originarie, prima della caduta, cioè un processo di reintegrazione con il divino, ne consegue (sempre seguendo il sillogismo categorico) che l’opera a cui si fa riferimento è un Opera Divina, in greco antico teos Dio e ergon opera, ciò che negli Oracoli Caldaici[1] è stata definita teurgia (dal greco antico θεουργία theurghía).
Ho detto pocanzi che la conoscenza iniziatica è Opera; allora, se il fine del Martinismo è la reintegrazione dell’uomo nelle sue condizioni originarie, prima della caduta, cioè un processo di reintegrazione con il divino, ne consegue (sempre seguendo il sillogismo categorico) che l’opera a cui si fa riferimento è un Opera Divina, in greco antico teos Dio e ergon opera, ciò che negli Oracoli Caldaici[1] è stata definita teurgia (dal greco antico θεουργία theurghía).
Di Opera si sta trattando. Occorre escludere, pertanto, tutto quanto possa avere carattere devozionale e, conseguentemente, deve essere escluso tutto ciò che diviene mero culto del divino.
Infatti, come il processo di conoscenza adottato dalla gnosi presuppone uno sdoppiamento fra conoscente e conosciuto, allo stesso modo, il culto del divino presuppone uno sdoppiamento, una netta separazione fra l’orante e la divinità.
Il processo iniziatico, di contro, auspica una transumanazione, un andare oltre la natura umana, per pervenire, successivamente, ad una identificazione con il divino, una fusione, un bruciare insieme o indiamento.
Una sintesi di quanto appena detto si trova nella parola “Dio” che indica sia il concetto di divinità, Dio per l’appunto, sia l’identità dell’iniziato, se si pensa a Dio scritto come D’Io. Ed è questo ricordo della primitiva unità da ricostituire che richiama il concetto di reintegrazione tanto caro al Martinismo e ai martinisti e, come ricordato dal Maestro Passato Nebo, ne è “… la sua essenza, la sua prima e ultima parola[2]”.
Parola o Verbum, vorrei aggiungere, capace di richiamare, da noi e in noi, la voce occulta e divina del nostro Maestro Interiore che ci ri-corda chi Io Sono.
Louis-Claude de Saint-Martin, in Ecce Homo, rammenta: “Malgrado la vastità del tempo, malgrado lo spessore delle tenebre, tutte le volte che l’uomo contemplerà i suoi rapporti con Dio, ritroverà in sé gli elementi indissolubili della sua essenza originale ed i naturali indizi della sua gloriosa destinazione[3].”
Ecco, allora, che il Martinismo fornisce gli strumenti per pervenire a questo risveglio progressivo in funzione della qualificazione dell’iniziato che rappresenta la materia prima dell’Opera.
Si è detto delle finalità dell’iniziazione, e dell’iniziazione martinista in particolare, si è detto che il Martinismo fornisce degli strumenti progressivi per la pratica, si è detto che il compimento dell’Opera dipende dalla messa “in atto” di quanto nell’iniziato è “in potenza”. Il martinista dovrà, perciò, mostrarsi scevro dai lacciuoli del tempo e dello spazio che non possono avviluppare colui che, ricevuta una iniziazione reale, avverta l’intima istanza di percorrere un cammino di riconciliazione e reintegrazione, facendo di sé stesso il Filosofo dell’Unità.
Sta proprio in questo l’attualità dell’iniziazione martinista che conserva la sua essenza più profonda nel suo essere intimamente radicata nella Tradizione.
Iperion S:::I:::I:::
Note:
[1] Gli oracoli caldaici sono stati scritti fra il I e II sec. d.C. e sono attribuiti a Giuliano il Caldeo e suo figlio Giuliano il Teurgo. L’opera completa, scritta in greco, è andata parzialmente distrutta e sono giunti a noi solo dei frammenti. Per approfondimento, si veda: Angelo Tonelli (a cura di), Oracoli caldaici, Rizzoli, Milano, 1995 e Chiara Toniolo, Opus Numinum. La Teurgia e la Magia nel mondo antico, Progetto Ouroboros, Milano, 2020.
[2] Francesco Brunelli, Il Martinismo e l’Ordine Martinista, Editrice Volumnia, Perugia, 1980, p.175.
[3] Louis-Claude de Saint-Martin, Ecce Homo. La reintegrazione dell’uomo attraverso la catarsi, Edizioni Bastogi, Foggia, 1998, p.27.